La responsabilità penale del sindaco e del revisore legale in situazione di crisi di impresa

Di: Maria Bruccoleri - il: 21-10-2016

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La crisi dell’impresa, il suo eventuale fallimento o il concordato preventivo, sono eventi che impongono una dettagliata analisi, delle cause dell’insolvenza o dello stato di crisi di un’azienda e, conseguentemente, la possibile rivisitazione, da parte del Giudice penale, delle condotte tenute dagli amministratori, ma, anche, da sindaci e revisori.

Una delle principali questioni riguarda la necessità di individuare eventuali presupposti su cui si fonda la responsabilità penale, in capo ai sindaci e al collegio sindacale e/o ai revisori contabili.

Importa, quindi, rintracciare quali siano le condotte penalmente rilevanti, ascrivibili a tali soggetti, in considerazione della evidenza per cui ogni procedimento penale ha una propria fisionomia, rappresentata da fatti e condotte specifiche, rilevanti e da rilevare caso per caso.

Nessun problema si pone quando appare evidente la collusione dell’organo di controllo con quello dell’organo amministrativo e vi è prova della conoscenza, delle condotte illecite e conseguentemente, dell’omissione di un comportamento doveroso, volto ad impedire l’evento. In buona sostanza, quando vi è prova del dolo dell’agente, sotto il profilo della sua consapevolezza e volontà di commettere il reato.

La circostanza, invece, diventa complessa allorquando si tratti di individuare il dolo eventuale, in capo all’organo di controllo e, cioè, quell’atteggiamento del soggetto che non persegue, esplicitamente, il realizzarsi del fatto illecito, ma si rappresenta come possibili i presupposti di una condotta manifestamente illecita, ovvero, il verificarsi delle conseguenze della propria azione o omissione, e accetta il rischio che un fatto, costituente reato, possa verificarsi.

Resta in capo al Giudice penale il gravoso compito di individuare i contributi rilevanti, di ciascuno, rispetto agli illeciti ritenuti sussistenti e ciò al fine di attribuire, ai singoli soggetti imputati, il ruolo e la responsabilità relativa.

La giurisprudenza concorda, sul principio per cui, occorre che il Giudice penale, verificata la posizione di garanzia rivestita da ciascuno dei componenti dell’organo di controllo, accerti che ci sia stata l’omissione dei poteri impeditivi, nonché, la sussistenza di un nesso causale, tra la mancata attivazione degli stessi ed il fatto di reato realizzatosi.

Premesso che è sempre valida la responsabilità per condotta omissiva penalmente rilevante, ai sensi dell’art. 40, comma 2 c.p., e/o l’aver agito in concorso del reato, ai sensi dell’art. 110 c.p., con gli amministratori (in tal senso Cass. n. 23223 del 14.10.2013), la condotta, posta in essere dal revisore legale e dal sindaco, per essere considerata penalmente rilevante, deve essere individuata dall’accusa, deve essere dolosa e rivestire taluni requisiti.

Tra questi:

  1. non avere espresso un giudizio negativo nella relazione al bilancio dei revisori, evidenziando le eventuali falsità. Tale fatto rilevando, nella ipotesi in cui, ove tale giudizio negativo si fosse manifestato, avrebbe comportato l’attivazione, da parte del collegio sindacale, dei poteri impeditivi di cui all’art. 2406, comma 2, cc; la norma, infatti, espressamente prevede che il collegio sindacale possa convocare l’assemblea, quando, nell’espletamento del suo incarico, ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità e via sia urgenza di provvedere;
  2. non avere attivato i controlli ed i relativi provvedimenti, da parte dell’Organo di Vigilanza, con espressa segnalazione dei fatti censurabili a detto Ente.

Vero è che, anche, in capo agli amministratori corre l’obbligo di far conoscere le operazioni poste in essere, senza reticenze od omissioni, all’intero del Consiglio di amministrazione, e, quindi, al Collegio sindacale, che partecipa alla seduta del C.d.A., ma tale l’obbligo di c.d. informazione, non costituisce, in caso di sua omissione, una esimente che escluda la responsabilità degli organi di controllo, mentre, può sussistere come causa di esclusione della responsabilità del Collegio Sindacale e dei revisori, allorquando, l’omissione informativa, non poteva essere percepita, per le modalità con cui veniva posta in essere l’operazione censurabile.

Sorge, pertanto, il problema per cui, pur nell’aver operato “con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico”, svolto dagli organi di controllo e, ancor più segnatamente, quella “specifica”, richiesta al professionista, emergano segnali d’allarme, in relazione a talune operazioni, ovvero, si manifestino sintomi di anormalità, tali da poter supporre la presenza di fatti sospetti o censurabili.

In buona sintesi, quel che il Giudice penale dovrà accertare, è che l’organo di controllo fosse nella condizione di potere essere “consapevole” dell’esistenza di tali sintomi, e che questi ultimi consentissero di comprendere il senso reale dell’operazione, posta in essere e costituente reato.

Ovviamente, tali segnali andranno valutati, caso per caso, con una indagine rivolta alle situazioni concrete in cui si siano espressi. Taluni di questi fattori possono rintracciarsi a seguito dell’esame dei bilanci o dall’analisi della gestione della società, così come possono essere supportati dall’evidenza di altri fatti esterni e differenti, ma, ugualmente, rilevanti.

Della potenziale “casistica” di tali segnali di c.d. pericolo, si sono occupati i principi contabili, ed in particolare, il principio di revisione ISA 570, documento di continuità aziendale.

Il principio citato indica, in particolare, tra i vari segnali di pericolo, gli indicatori finanziari e gli indicatori gestionali.

E, comunque, tutti quei segnali perspicui, in presenza dei quali, gli organi di controllo devono attivarsi. Eventi o circostanze che facciano sorgere dubbi sulla possibilità che la società possa far fronte ai propri impegni.

Gli indizi di possibile crisi, devono essere, comunque, valutati in concreto dalla magistratura e contestualizzati sulla complessiva e reale situazione patrimoniale, gestionale e finanziaria della società, non bastando la loro mera conoscibilità a fondare la responsabilità dei titolari di una posizione di garanzia (in tal senso, in ultimo, la Suprema Corte di cassazione n.21702 del 11.10.2016).

Rimane, altresì, indispensabile best pratice, quella di richiedere agli amministratori, le informazioni utili e necessarie, al fine di operare una corretta valutazione, lasciando, sempre, traccia documentale dell’attività svolta e delle decisioni formulate, nonché delle ragioni della loro assunzione.

Occorre sottolineare, per completezza, che la Suprema Corte ha teso allargare taluni passaggi, tesi all’affermazione di una responsabilità, anche, per dolo eventuale degli organi di controllo, rintracciandoli sostanzialmente nella prova della presenza di ignorati chiari segnali d’allarme che, inequivocabilmente, indicavano come si stesse per realizzare uno specifico evento criminoso, poi effettivamente verificatosi, e, ancora, nella verifica che il soggetto avesse concretamente percepito e valuto o avrebbe, con la diligenza richiesta, potuto percepire e valutari tali segnali come rappresentativi di illeciti in itinere, ma che, pur nella effettività della rappresentazione, si sia accollato il rischio e la possibilità del loro realizzarsi.

Ed, infine, non pochi dubbi genera la possibilità, prevista dal 2012, che anche il Collegio Sindacale possa svolgere funzioni di organismo di vigilanza (ODV), come istituito e previsto ai sensi del Dlg. N. 231/2001.

Ciò che vorrebbe apparire un tentativo di semplificazione, diventa, invece, fonte di ulteriore responsabilità in capo ai soggetti operanti, considerato che un elemento di poca chiarezza si intravede nella mancata distinzione tra controllato e controllore.

Leggermente diversa è la responsabilità del revisore, con riferimento alla quale, l’art. 15 D.lgs. n.39 del 2010, sostiene che i revisori legali e le società di revisione, rispondano in solido tra loro e con gli amministratori, nei confronti della società che ha loro conferito l’incarico di revisione legale, ma anche dei suoi soci e dei terzi, per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri. Nei rapporti interni, come tra debitori in solido, invece, essi sono responsabili nei limiti del contributo effettivo al danno cagionato.

Tutto ciò permesso, le sanzioni, nel merito, sono previste dal D.lgs. n.39 del 27 gennaio 2010.

Le disposizioni sanzionatorie sono di natura sia amministrativa che penale.

Le sanzioni di tipo amministrativo possono essere applicate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (art. 24), nei confronti dei soggetti che effettuano attività di revisione verso enti non di interesse pubblico, e dalla CONSOB (art. 26), relativamente agli incarichi svolti dai revisori degli enti di diritto pubblico, come individuati dall’art. 16 dello stesso decreto.

E’ possibile distinguere diverse tipologie di sanzioni: la sospensione dal Registro per un massimo di 5 anni; la revoca di uno o più incarichi di revisione legale; il divieto di accettare nuovi incarichi di revisione legale per un massimo di 3 anni; la cancellazione dal Registro. Anche per quanto riguarda le sanzioni applicabili dalla CONSOB, il D.lgs. n 39/2010 assegna, a quest’ultima, il potere di emettere sanzioni nei confronti dei revisori e delle società di revisione, per accertate irregolarità, da questi compiute, nello svolgimento dell’attività di revisione, svolta solo nei confronti degli Enti di interesse pubblico.

Il capo VIII del D.lgs. n.36/2010, oltre a sanzioni di natura amministrativa, prevede, specifiche fattispecie di reato penale, con l’accorpamento e la riformulazione di figure criminose già presenti nel codice civile e nel TUIF.

Tra le principali fattispecie penali considerate per i revisori ci sono le falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale (art. 27) e la corruzione dei revisori (art.28).

Di particolare va evidenziato l’intervento del legislatore, con il D.lgs. n.39/2010, sul reato di falsità nelle relazioni o comunicazioni della società di revisione.

La fattispecie prevista dall’art.27, ispira la struttura della condotta di reato a quella prevista dall’art. 2621 c.c., differenziando le pene nei casi in cui sia interessato alla revisione un ente di interesse pubblico. La sanzione, invece, colpisce la condotta del responsabile della revisione legale, che, coscientemente, attesti il falso od occulti informazioni relative alla situazione patrimoniale o finanziaria di soggetti collettivi sottoposti a revisione, con modalità idonee a condurre in errore i destinatari della comunicazione, per conseguire, per sé stessi o per altri, un ingiusto profitto. E’ prevista, altresì, una responsabilità, a titolo di concorso, anche, di chi “dà o semplicemente promette l’utilità” o per chi è soggetto qualificato di un ente di interesse pubblico sottoposto a revisione, come il direttore generale o i componenti dell’organo di amministrazione e organo di controllo dell’ente.

La falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni, se è stata posta in essere dal responsabile della revisione legale di un ente di interesse pubblico, è punita con la pena della reclusione da 1 a 5 anni.

La corruzione del responsabile della revisione è prevista, invece, dall’art. 28 e si realizza allorquando quest’ultimo ponga in essere, oppure, ometta atti in violazione degli obblighi derivanti dal suo ufficio, in seguito alla dazione o alla semplice promessa, di conseguire qualsiasi tipologia di utilità, causando un danno alla società soggetta a revisione. In tale caso, la pena è la reclusione, la stessa viene, sostanzialmente, aumentata se si tratta di un incarico di revisione di un ente di interesse pubblico.

E, poiché, i reati previsti dagli art. 2630 c.c. (omessa esecuzione di denunce, comunicazioni, depositi e atti), art. 2636 c.c. (illecita influenza sull’assemblea), art. 2637 c.c. (Aggiotaggio), riguardano chiunque agisca in termini di controllo, esse sono riferibili, anche agli eventuali revisori che operino in tal modo.

Si deve ricordare, inoltre, che le norme previste dal codice civile hanno trovato accoglimento anche nell’ambito dell’art 25-ter del D.lgs. n.231/2001 – Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica.

Con questo articolo, per tutti i reati indicati “se commessi nell’interesse della società, da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto non si fosse realizzato, se essi avessero vigilato, in conformità agli obblighi inerenti alla loro carica”, vengono previste sanzioni di carattere pecuniario, con un ammontare variabile da 100 a 150 quote. Sanzioni che possono essere aumentate di un terzo, se l’ente ha conseguito, con la commissione di un reato, un profitto di rilevante entità.

Va citata, tuttavia, la posizione recentemente assunta dalle Sezioni Unite Penali della Cassazione, con sentenza n.34476 del 23.06.11, depositata il 22.09.11, che ha, espressamente, sancito il principio per cui il D.lg. 27.1.10, n.39, nel riformulare il contenuto dell’art. 174 bis TUF sulle falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni delle società di revisione, non è intervenuto sulla responsabilità amministrativa da reato, come prevista dall’art. 25 tre del DLGS 231/2001, in quanto, questa fattispecie non è richiamata, tra i reati presupposto della responsabilità degli enti e non può quindi, conseguentemente, costituire fondamento di siffatta censura in capo agli enti stessi.

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